LA MIA STORIA DI NEURO-DIVERGENTE: ORA CAPISCO PERCHé ERO SEMPRE DISTRATTO

Questo articolo è uscito su 7 in edicola venerdì 10 novembre. Lo pubblichiamo online per i lettori di Corriere.it

È dall’adolescenza che cerco di capire perché non riesco a funzionare bene come gli altri. Di volta in volta una risposta diversa: pigro, penso troppo, mi annoio facilmente, sono multipotenziale, sono del segno dei Gemelli. Le persone attorno a me, ciclicamente, mi hanno definito instabile, maleducato, «fatto a modo suo», con la testa tra le nuvole, ritardatario, inaffidabile, capriccioso, un fallito. Molti cambi di scuola, tante vocazioni interrotte, troppi portafogli, valigie e documenti dimenticati in giro e mai più ritrovati. Da qualche mese ho ricevuto la diagnosi psichiatrica di ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività), e sto iniziando a mettere insieme i pezzi di una storia fatta di sforzi continui e frustrazione, confronti angoscianti e frequenti rinunce, una storia che non escludo somigli a quella di molti.

DIAGNOSI COME LA MIA, IN ETA’ ADULTA, SONO FRUTTO DI UNA CIRCOLAZIONE NUOVA DELLE INFORMAZIONI SU CONDIZIONI IGNORATE O FRAINTESE

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La consapevolezza su questo disturbo da qualche tempo sta cambiando: le diagnosi come la mia, arrivate in età adulta, sono frutto di una circolazione nuova delle informazioni sulle cosiddette neurodiversità, o neurodivergenze, condizioni fino a poco tempo fa ignorate o fraintese. Se pensiamo al disturbo dell’attenzione, e all’iperattività, l’immaginario comune ci porta subito all’infanzia. Al bambino che corre e saltella da una parte all’altra, non riesce a seguire le lezioni, a cui è impossibile far fare i compiti. Io non ero così.Introverso e pacato, amante delle storie e del disegno, a me piaceva andare a scuola. Non ero scalmanato. Ho scoperto infatti che l’ADHD ha due forme principali: una più attentiva (per così dire, mentale) e un’altra più fisica, corporea (le due forme possono anche combinarsi). Sono sempre stato un alunno brillante, eppure i segnali, nel momento in cui lo psichiatra mi ha chiesto di coinvolgere la mia famiglia nel processo diagnostico, e rivolgere lo sguardo all’indietro, sono arrivati lo stesso. Già dalle elementari le insegnanti lamentavano specifici problemi disciplinari: spiazzanti, data la mia propensione verso lo studio. Avevo sempre bisogno che mi dessero qualcosa di nuovo da fare, altrimenti mi agitavo e facevo distrarre i compagni, entrando in conflitto con l’autorità. Mi è sempre risultato impossibile stare seduto in maniera tradizionale, e se ripenso alla mia infanzia è tutta attraversata dal coro dei parenti che mi accusano di sfondare le sedie del salotto perché sto abbarbicato «come una scimmia». Gambe raccolte, in ginocchio, accovacciato: il corpo per me è stata la soluzione, il canale con cui allento una pressione mentale che non so addomesticare altrimenti. Non ne ero consapevole, ma oggi, a fronte di impegni che mi mandano in cortocircuito, finisce che mi perdo in lunghissime camminate per la città o in tre, quattro ore di yoga dinamico al giorno.

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Un motore sempre acceso

L’ADHD può essere descritto come un motore sempre accesso, una sorta di sollecitazione interna costante, che impedisce di controllare/modulare l’attenzione e l’impulsività, ma anche di regolare da sé la motivazione nel fare le cose. Simone Weil dice che l’attenzione è tutto fuorché un «contrarre muscoli», e infatti non ha senso dire a una persona con ADHD di «impegnarsi di più», «mettersi di buona volontà», «farsi venire la voglia». È un modo diverso di funzionare, che provoca sofferenza in chi ce l’ha perché il nostro mondo è costruito a immagine e somiglianza del funzionamento neurologico tipico, quello ritenuto “normale”. Una persona con ADHD non riesce, o fa molta fatica, a mantenere l’attenzione a comando, anche se, in caso di attività particolarmente interessanti, può scattare un meccanismo opposto, quasi compensatorio, che prende il nome di iperfocus: un assorbimento completo, uno sprofondare nell’oggetto o nel tema entusiasmante, fino a dimenticarsi del tempo che passa, di mangiare, lavarsi, rilevare i pericoli. Kathleen Nadeau, una delle maggiori esperte in questo campo, nel suo Adventures in Fast Forward , racconta di una donna con ADHD talmente concentrata sulla stesura di un articolo da non accorgersi che in casa sua era scoppiato un incendio: «Non si è accorta delle sirene, e alla fine è stata trovata dai vigili del fuoco che lavorava tranquillamente nella sua stanza mentre la cucina era avvolta dalle fiamme». Io, come tanti oggi, ho un’evidente dipendenza dallo smartphone: quando entro in questa specie di arma segreta dell’ADHD, che unisce un po’ magicamente trance e lucidità, sono capace di non toccarlo per una giornata intera, e senza alcun bisogno di deciderlo. Semplicemente il telefono scompare dal mio campo mentale.

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Il confronto con gli altri

Sono laureato in Filosofia, e ho sempre letto molto, ma lo sforzo è stato costante. Spesso è il confronto con gli altri che accende delle spie, rivela l’anomalia: il mio ragazzo è tutto fuorché un lettore forte, eppure è molto più concentrato e veloce di me nella lettura. Sa immergersi in un libro di trecento pagine e finirlo in mezza giornata, mentre io per ancorarmi alle frasi devo mettere in atto una serie di strategie logoranti. Cambiare di continuo posizione - divano, pavimento, tavolo, sdraiato, rannicchiato, seduto -, camminare avanti e indietro nei pochi metri del nostro monolocale, leggere ad alta voce, muovere ritmicamente le mani o i piedi fino a sfinirmi (in questo caso si parla di stimming , ovvero autostimolazione). Di nuovo il corpo: devo liberare fisicamente gli impulsi che dall’interno salgono a chiedermi di andare altrove, fare qualcosa per cercare di rimanere mentalmente fermo. Anche scrivere è difficilissimo, non perché io non abbia idee, ma esattamente per il problema opposto: ogni volta che arrivo davanti alla pagina bianca mi si spalancano troppe possibilità, troppi modi di iniziare un racconto, scandire un tema, costruire un articolo. L’ADHD comporta anche un’incapacità nel gerarchizzare, mettere ordine tra gli stimoli. Mi sento sopraffatto da tutti i sentieri che la mia mente intravede, dall’impossibilità di afferrare e seguire un singolo filo della matassa delle idee. E così mi distraggo, procrastino fino alla rinuncia (la procrastinazione è un altro dei tratti dell’ADHD).

LA MIA INFANZIA E’ ATTRAVERSATA DA UN CORO DI PARENTI CHE MI ACCUSAVANO DI SFONDARE LE SEDIE PERCHE’ STO «ABBARBICATO COME UNA SCIMMIA»

La diagnosi ha dato un senso anche alla mia storica, scarsa memoria: all’università, oltre ad aver bisogno necessariamente di studiare insieme a qualcuno che placasse la mia irrequietezza, impiegavo almeno il doppio del tempo dei miei compagni a preparare gli esami. Pur capendo tutto di quello che leggevo, alla fine non immagazzinavo nulla, e mi ci volevano settimane e settimane tra riletture e innumerevoli schematizzazioni. Spesso ho pensato di essere stupido, debole di testa, ho dato la colpa alle mie origini proletarie, all’essere cresciuto tra persone poco scolarizzate che non mi hanno stimolato a dovere.

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Memoria e intelligenza

Ho pensato di essere meno intelligente degli altri, ma dai test del quoziente intellettivo eseguiti durante il percorso diagnostico in realtà è emerso che - come spesso accade anche con i disturbi dell’apprendimento e l’autismo - il mio QI è sopra la norma (gli esperti parlano di plusdotazione). È sopra la norma, eppure ho fatto e faccio un’enorme fatica a portare avanti le attività intellettuali che amo e ho scelto come lavoro. Avere l’ADHD significa che le risorse ci sono, e possono essere persino migliori della media, ma non si è in grado di controllarle. Il mio psichiatra dice che la mia forma è legata soprattutto al mind wandering (“vagabondaggio della mente”, o “mente errante”): è come se vivessi molto più nella testa che nel mondo attorno a me. Per questo dimentico oggetti, non ricordo i libri che studio, sono privo di senso dell’orientamento (compio percorsi senza registrare quasi nulla dell’esterno), spesso non ascolto quando le persone mi parlano, sono impaziente e tendo a non portare a termine le cose. Il flusso interno dei pensieri è talmente intenso, costante e urgente, che ciò che sta fuori va in secondo piano, puro sfondo alla proliferazione mentale.

Jonathan Bazzi, milanese, classe 1985, è laureato in filosofia.Iil suo primo romanzo, Febbre (Fandango) è stato finalista al premio Strega 2020. Il suo ultimo lavoro è il romanzo Corpi minori (Mondadori)

Diversità, non disturbo

Con l’ADHD, così come con molti altri funzionamenti neuro-atipici, molti sono i pregiudizi, le interpretazioni da rivedere. Ad esempio, più che di “disturbo” sarebbe meglio parlare appunto di differenza, atipicità, dato che, accanto agli svantaggi, una persona con ADHD presenta spesso anche doti specifiche, come la spiccata energia mentale, la capacità di fare collegamenti originali tra le cose, il problem-solving e la creatività. Per questo è importante che le testimonianze in prima persona circolino e che, in caso di un sospetto, si provi a sondare il proprio caso con un esperto: i farmaci e la psicoterapia possono aiutare a smorzare i lati vissuti come un ostacolo, valorizzando le specificità di una mente in continuo movimento. Ho deciso di parlarne per questo, ma anche per denunciare l’arretratezza italiana: esperti e centri specialistici da noi sono pochissimi.

E’ COSì CHE UNA SOFFERENZA ANCORA INCONSAPEVOLE PUO’ TROVARE IL NOME PER COMPRENDERE SE’ STESSA: ANCHE QUESTA E’ SALUTE MENTALE

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Siamo anche l’unico Paese in cui il farmaco principale indicato dalle linee guida internazionali per l’ADHD, il metilfenidato (uno stimolante del sistema nervoso centrale), può essere prescritto solo se lo si assumeva già nell’infanzia. Un’assurdità fondata su una visione moralistica (il metilfenidato appartiene alla classe delle anfetamine) e antiquata, specie tenendo conto che fino a poco tempo fa di ADHD quasi non si parlava, e dunque sono tante le persone che arrivano alla diagnosi solo in età adulta. Ora è quasi un mese che - a prezzo pieno, e spesso dovendo discutere con farmacisti sospettosi, capaci di rifiutare le ricette dello specialista - assumo il metilfenidato, e il miglioramento che sto osservando sui miei sintomi è innegabile. Scrivo queste righe anche per dire che non si deve aver paura delle etichette psicologiche e psichiatriche: sono strumenti di lavoro, insegne affisse all’entrata di un processo di trasformazione soprattutto dell’idea che si ha di sé. La salute mentale passa anche per l’aggiornamento dell’immaginario e la condivisione delle esperienze personali: è così che una sofferenza ancora inconsapevole può trovare il nome per comprendere sé stessa, e la comunità può rendersi conto dei margini di miglioramento dei percorsi di cura che offre a chi, magari dopo molti anni e molta fatica, arriva a chiedere aiuto.

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